Teo ha 19 anni, l’esame di maturità tra pochi minuti, un padre irascibile e rompiscatole e una madre in cerca di libertà, in campagna, con un altro uomo. Il sogno di Teo è quello di fare lo scrittore. Vorrebbe iscriversi alla scuola Carter, ma gli servono 7mila euro che non ha. Non ha nemmeno un lavoro. Intanto al padre viene diagnosticato un grave male e anche Chiara, la ragazza che ha appena conosciuto e che gli fa girare la testa, minaccia di andarsene, in Armenia, alla ricerca del primo vitigno dell’umanità.
Quattordici anni dopo Ovosodo, si torna in Toscana – non a Livorno ma in Maremma – per raccontare il romanzo di formazione di un ragazzo ricco di buone intenzioni e povero di mezzi reali, che si trova a dover fare i conti con una giostra di lavoretti precari e vede i compagni più benestanti trovarsi la strada spianata davanti senza dover faticare, anche se forse quella strada per loro non è giusta o non è proprio onesta.
Il film, che non aggiunge una virgola a quanto visto e rivisto, porta coraggiosamente la firma di Francesco Falaschi – autore del ben più interessante Emma sono io – ma nasce, in realtà, da un laboratorio della Scuola di Cinema di Grosseto, di cui Falaschi è direttore. Nell’ottica dell’esercitazione, tutto acquista un altro senso e un altro peso, anche se certo non migliora la visione.
Diventa, perciò, apprezzabile la modalità di ripresa, quasi totalmente in esterni, che si giustifica con il basso budget senza che i costi ridotti facciano mai apparire troppo carente il girato; e una nota di merito va anche alla voce recitazione: a Edoardo Natoli, ormai in grado di dipingere un carattere con pochissimi tocchi, e anche al protagonista, Matteo Petrini, che, nonostante indossi un personaggio assai banale (e la “precarietà sentimentale” non è più un alibi accettabile) regge bene i duetti con Dazzi e Sassanelli. (Meno bene quello di sguardi con Fabrizia Sacchi).
Si fatica invece a farsi piacere il racconto, specie perché gli avrebbe giovato andare in una direzione di semplicità e di stilizzazione e invece si affanna a riempirsi di elementi che non hanno poi uno sviluppo – come la chiamata in causa di Fante, Bukowski e Bianciardi – o, se ce l’hanno, è troppo sbrigativo, come nel caso del cinema galleggiante.
Il titolo s’ispira a una bellissima poesia di Rodolfo Wilcock, ma nel film, purtroppo, di poesia ce n’è davvero pochina.
Questo mondo è per te (2011)
28 Agosto 2011 Grazia Materia Cinema